Memoria — Natalia Ginzburg

…Allora quando piangevi c’era la sua voce serena;
e allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso.
Ma il cancello che a sera s’apriva resterà chiuso per sempre;
e deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa.

Memoria

Gli uomini vanno e vengono per le strade della città.
Comprano cibo e giornali, muovono a imprese diverse.
Hanno roseo il viso, le labbra vivide e piene.
Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso,
ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto.
Ma era l’ultima volta. Era il viso consueto,
solo un poco più stanco. E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe eran quelle di sempre. E le mani erano quelle
che spezzavano il pane e versavano il vino.
Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo
a guardare il suo viso per l’ultima volta.
Se cammini per strada, nessuno ti è accanto,
se hai paura, nessuno ti prende la mano.
E non è tua la strada, non è tua la città.
Non è tua la città illuminata: la città illuminata è degli altri,
degli uomini che vanno e vengono comprando cibi e giornali.
Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra,
e guardare in silenzio il giardino nel buio.
Allora quando piangevi c’era la sua voce serena;
e allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso.
Ma il cancello che a sera s’apriva resterà chiuso per sempre;
e deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa.

{Memoria — Natalia Ginzburg}

Commento:

Natalia Ginzburg scrisse questa poesia in morte di suo marito Leone, torturato ed ucciso il 14 febbraio 1944 nelle carceri tedesche per la sola colpa di essere ebreo.
Il ‘tu’ di questa poesia è l’autrice stessa: è lei che parla a se stessa, in una specie di dialogo interiore tra sé e sé.
La poesia comunica il senso di straniamento successivo alla morte della persona cara: il mondo sembra andare avanti lo stesso, uguale a prima; gli uomini vanno e vengono per le strade della città, indaffarati nelle loro occupazioni quotidiane; tutto sembra come prima. Anche quando lo ha visto per l’ultima volta, morto, le è sembrato simile a come era prima, con il viso di sempre, le mani, le scarpe, i vestiti di quando era in vita…
Cosa c’è di diverso, allora? La solitudine; quella che le piomba addosso quando percepisce l’assenza di lui; quando non c’è nessuno che le cammina a fianco, nessuno che le prende la mano se ha paura; non c’è nessuno che rida con lei, che le dia serenità quando piange. Così è per le strade della città, che non è più la sua città, ma di altri; e così è dentro casa sua, che è vuota e deserta, come la sua vita.
La poesia, con il titolo di ‘Memoria’, fu pubblicata nel dicembre del 1944 sulla rivista «Mercurio»

Una risposta a “Memoria — Natalia Ginzburg”

  1. L’ultima lettera di Leone Ginzburg
    alla moglie Natalia scritta il giorno prima di morire:

    Natalia cara,
    ogni volta spero che non sia l’ultima lettera che ti scrivo, prima della partenza o in genere; e così è anche oggi. Bisogna continuare a sperare che finiremo col rivederci, e tante emozioni si comporranno e si smorzeranno nel ricordo, formando di sé un tutto diventato sopportabile e coerente. Una delle cose che più mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e qualche volta io stesso) perdono il gusto dei problemi generali dinanzi al pericolo personale. La mia aspirazione è che tu normalizzi, appena ti sia possibile, la tua esistenza; che tu lavori e scriva e sia utile agli altri. Questi consigli ti parranno facili e irritanti; invece sono il miglior frutto della mia tenerezza e del mio senso di responsabilità. Attraverso la creazione artistica ti libererai delle troppe lacrime che ti fanno groppo dentro; attraverso l’attività sociale, qualunque essa sia, rimarrai vicina al mondo delle altre persone. A ogni modo, avere i bambini significherà per te avere una grande riserva di forza a tua disposizione. Rivedere facce amiche, in questi giorni, mi ha grandemente eccitato in principio, come puoi immaginare. Adesso l’esistenza si viene di nuovo normalizzando, in attesa che muti più radicalmente. Ho ripensato, in questi ultimi tempi, alla nostra vita comune. L’unico nostro nemico (ho concluso) era la mia paura. Le volte che io, per qualche ragione, ero assalito dalla paura, concentravo talmente tutte le mie facoltà a vincerla e non venir meno al mio dovere, che non rimaneva nessun’altra forma di vitalità in me. Non è così? Se e quando ci ritroveremo, io sarò liberato dalla paura, e neppure queste zone opache esisteranno più nella nostra vita comune. Non ti preoccupare troppo per me. Immagina che io sia un prigioniero di guerra; ce ne sono tanti, soprattutto in questa guerra; e nella stragrande maggioranza torneranno. Auguriamoci di essere nel maggior numero, non è vero, Natalia?
    Sii coraggiosa.
    Leone

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